di Michele Bardin
Una bellissima mostra su Carlo Carrà, a Palazzo Reale, ripercorre la vita artistica e la ricerca del pittore di adozione Milanese.
Quasi duecento tele che partono dal divisionismo ispirato a Giovanni Segantini, passando dal cubismo di stampo picassiano, al futurismo, a un breve periodo di collage poetici alla Marinetti per arrivare alla metafisica di chiara ispirazione De Chirico.
Carrà è già in questa prima parte della sua produzione artistica un ottimo colorista e disegnatore ma è ancora un artigiano, un raffinatissimo decoratore. Esegue bene, anzi benissimo, opere che pur essendo sue non lo sono.
L’artista vero, nonostante gli studi di Brera e i viaggi a Parigi e Londra, non è ancora nato. Bisognerà aspettare gli anni venti, la prima maturità per vedere emergere il suo linguaggio, il suo personalissimo idioma. Un mondo sospeso e sognante, carico di malinconia, visioni solitarie poetiche calde e tristi allo stesso tempo. Nel suo vero linguaggio si intravedono il passato, gli studi, le imitazioni dei grandi artisti del suo tempo che lo hanno ispirato e con i quali si è forgiato. Ma tutto ora assume una nuova coloritura, non è copia, è tutto originale e pienamente espressione del suo mondo interiore unico come è unico ogni mondo interiore.
È interessante vedere come dagli altri, imitando gli altri, studiando gli altri, facendosi penetrare dagli altri, a un certo punto possa nascere il proprio linguaggio.
In questa cronologia artistica si verifica un processo analogo a quello della formazione della personalità adulta.
Il bambino libero di esprimersi, se ha la fortuna di vivere in un ambiente sufficientemente buono, produce le sue opere ed è unico nel suo linguaggio figurativo. Poi iniziano le norme, le leggi, la ragione, il pensiero logico razionale e il proprio linguaggio si perde come un fiume carsico. Qui si inizia a guardare gli altri che lo circondano. Genitori, fratelli, poi compagni, maestri, libri. La personalità è in formazione.
Dapprima tramite imitazione dell’idolo del momento, la mamma, il papà, il fratello maggiore (Segantini, Marinetti, De Chirico, Picasso). L’adolescente è punk, vegano, anarchico, rapper, si camuffa e si traveste da altro da sé. Sperimenta, studia, prova gli abiti alla ricerca di quel che più gli si addice. Poi le cose decadono, si perdono, ma qualcosa rimane. Brandelli digeriti che entrano misteriosamente in assonanza con qualcosa di profondo vengono salvati, elaborati, masticati, conditi, arricchiti, si depositano come mattoni personali che pian piano andranno a edificare la nostra persona. I frammenti si combinano fra loro, il caotico e informe prende forma compiuta, è una sorta di illuminazione, il fatto scelto come direbbe Bion e nasce la persona unica che c’è in noi.
Ci sono ancora tutti gli abiti provati e indossati, ma rivisti, corretti, tagliati e cuciti fino a dar vita a qualcosa di nuovo e unico.
Carlo Carrà vive questa esperienza nell’espressione creativa a 40 anni. È qui che nasce il suo personalissimo idioma artistico e io credo inesorabilmente legato alla piena maturità psichica. Nei suoi dipinti c’è ancora tutto il suo passato ma personalizzato e unico. Colori fusi del cubismo, forme minimaliste del metafisico, figure geometriche e semplici del primitivismo. Dal 1921 in poi i quadri di Carrà sono riconoscibili, inconfondibili. Sperimenterà ancora per tutta la vita, cambieranno i soggetti: paesaggi, nature morte, ritratti, composizioni. La ricerca continua ma il segno non cambia più. Fino alla sua ultima tela, una commovente natura morta, il suo segno rimane lo stesso, è la sua voce.
Lo stesso avviene per la personalità matura. Una volta nata, o meglio sarebbe dire ritrovata, non ci abbandona più fino alla morte.
Il passaggio che permette la nascita del proprio idioma si verifica attraverso il lutto degli altri, bisogna abbandonare gli altri, i maestri-protettori. Uscire da sotto l’ombrello del noto e del rassicurante.
Carlo Carrà lo sa bene, scrive egli stesso nel 1922: “Questa data segna la mia ferma decisione di non accompagnarmi più ad altri, di essere soltanto me stesso”.
Per nascere come uomo adulto pienamente sviluppato, per trovare la propria genuina personalità, per scoprire il proprio idioma bisogna quindi aver avuto dei maestri e bisogna altresì avere il coraggio di lasciarli andare.
Spesso i nostri pazienti in analisi hanno avuto problemi in tale processo. Possono non avere avuto maestri sufficientemente attenti, possono non aver avuto alcuno maestro, oppure possono rimanere legati ad essi troppo a lungo terrorizzati dall’idea di camminare da soli. Forse le due cose sono sempre correlate ovvero, non si può abbandonare i maestri se prima non ci sono stati per molto tempo e se non hanno svolto adeguatamente la loro funzione ispiratrice.
In analisi il paziente propone i suoi abiti, l’analista lo aiuta a metterli, a vedere cosa funziona e cosa no. È una ricerca a quattro mani, un collage corale a più voci, quelle interne del paziente e quelle interne dell’analista. Prove ed errori, schizzi di disegno, bozze di colore, tele abbandonate, tele riuscite, copie, piccoli brandelli originali. Sperimentando si cerca e si trova. Sotto l’ombrello protettivo dello sguardo analitico si cerca e si trova fino a quando il processo si compie. È il momento di abbandonare i maestri del passato fra i quali ci sarà anche lo stesso analista.
È l’ultima prova, dolorosa quanto necessaria, il lutto di colui che ci ha aiutato a trovarci, l’ultima tela a quattro mani oltre la quale ogni opera porterà la propria unica ed esclusiva firma.
La mostra a Palazzo Reale di Milano
Carlo Carrà
Lunedì: 14.30 – 19.30
Martedì, mercoledì, venerdì e domenica: 9.30 – 19.30
Giovedì e sabato: 9.30 – 22.30
www.palazzorealemilano.it