COME SI PARLA DI GUERRA AI BAMBINI?
di Claudia Balottari
E se rovesciassimo la domanda: come i bambini parlano di guerra agli adulti?
VULNERABILITA’ E RESPONSABILITA’
Sara, 6 anni, guarda scene di guerra alla Tv con il papà, chiama la mamma e le dice “spegni la Tv, il papà ha paura”. La mamma si sente in colpa, si accorge che “non ne abbiamo mai parlato”. La comunicazione è stata affidata “a terzi”, indistintamente condivisa e assorbita da genitori e figlia, rovesciando il ruolo di protezione. Le immagini perforano la mente, colpiscono direttamente l’immaginario, producono emozioni che confondono realtà e fantasia, vero e falso, vicinanza e distanza, senso del tempo, “mio” e “di altri”.
I piccoli, da soli, non possono farcela. “Sono senza mascherine di fronte alla guerra, gli adulti hanno la responsabilità di mettere filtri, devono essere consapevoli che ogni conflitto risuona per il bambino in prossimità del suo corpo, dei suoi sensi, percepito vicino a sé, evocativo delle tensioni che sente lì dove vive”, nell’atmosfera emotiva che si diffonde nell’aria della casa. I piccoli vedono la guerra negli occhi, nella mimica, nella tensione psicocorporea degli adulti.
L’ELABORAZIONE MENTALE INFANTILE
La guerra entra in casa e tocca le guerre interne a sé: tutti conosciamo il conflitto tra odio e amore, tra vita e morte. Conosciamo il dolore delle perdite, che sollecita identificazioni, empatia. Ma sollecita anche movimenti difensivi/riparativi in vario modo.
Giacomo, 4 anni, guarda il cielo e chiede al nonno: “l’Uccaina” è lassù nel cielo”? Ha bisogno di fissare un luogo “dove collocare”, un luogo contaminato dalle sue confuse prefigurazioni della morte: gli hanno raccontato che è lassù nel cielo la casa di chi muore. La morte è sparizione ma richiede un luogo in cui ospitarla, un luogo incerto tra mentale e reale, un luogo che permetta di distinguere tra chi è vivo e chi è morto, quanto sia vicina o lontana la morte.
Mattia, 11 anni, sovrappone un cartello sullo striscione per la pace (appeso a un filo), con la scritta “Tutti gli ucraini possono scappare con il treno così la guerra resta da sola”.
È intelligente l’intuizione che la guerra si fa in due e se una delle parti “lascia” il campo, la guerra è evitata. Il pensiero è semplice, pieno del desiderio e del sollievo della pace, ma illusoriamente ottenuta secondo la strategia della fuga. Non c’è fuga dalla guerra nella mente, se non con negazione e isolamento.
Chi è la “guerra che resta da sola”? Sentiamo in questa soluzione echi di avvicinamento a guerre familiari, quelle vicine alle esperienze di “litigio, contesa, opposizione”, che portano a separazioni affettive dolorose. Se “i grandi” non sanno trovare i toni della pace nel conflitto, la casa interna della sicurezza crolla, bisogna abbandonarla, e rifugiarsi nell’isolamento solitario con l’illusione dell’autosufficienza, il divieto della conoscenza, la colpa di essere nati. Un’illusione che nega il dolore, e il cuore si fa pietra. Come questa pietra/è il mio pianto che non si vede/La morte si sconta vivendo. (Ungaretti, Sono una creatura).
I RIFUGI PER RINASCERE – LASCIAMOLI GIOCARE
A buona ragione Madre Teresa, alla domanda “cosa puoi fare per promuovere la pace” rispondeva “Vai a casa tua e ama la tua famiglia”. Guerra e pace si radicano nell’esperienza affettiva e comportamentale che ha origine nell’ambiente di crescita, dove il conflitto tra amore e odio può ricevere ascolto, revisione, prospettive di giustizia, trasformando la disperazione in speranza di riparazione, l’odio – che non va negato – in tolleranza delle diversità.
“Lasciamoli giocare: il gioco è la tecnica migliore per entrare in contatto con loro”, così dice Anna Freud, in ‘Se solo il mio cuore non fosse pietra’, (di Titti Marrone).
Il gioco è lo strumento innato per elaborare l’esperienza. Come nelle fiabe più crude, può mettere in scena drammi e tragedie crudeli, ma prospettare anche soluzioni, diverse dal “mondo di Barbie”.
Il gioco è una via per riconquistare la fiducia nell’adulto, e per ricondurre la relazione adulto-bambino a un ambiente nutrito di fiducia nella reciprocità e nella libertà di comunicare.
Una madre racconta che Eli e Chiara, amiche, terza elementare, hanno giocato tutto il pomeriggio a ”fare le profughe ucraine”: nei passeggini portavano i piccoli in fuga nei rifugi preparati dalla gente. Lì c’erano i soccorsi, il latte e le coperte per difendersi dal freddo.
Il gioco “lavora” in direzione della solidarietà e della condivisione, la mette in forma cercando compagnia, la comunica agli altri in modo vivo e contribuisce a tener vivo “un cuore che pensa”.
Nel 1945 Anna Freud, insieme alla collaboratrice Alice Goldberger, istituisce a Lingfield un centro di accoglienza per bambini sopravvissuti ai lager o a nascondigli in cui hanno vissuto durante la guerra. Il luogo diventa casa di nuova vita per 25 bambini, che trovano l’ambiente affettivo e capace di attesa rispettosa dell’evolvere dei traumi, dei mutismi, delle esternazioni della violenza subita, restituendo fiducia del diritto a esistere.
Titti Marrone ne ricostruisce una storia documentata nel libro “Se solo il mio cuore non fosse pietra”, Feltrinelli ed.
È un invito alla lettura, per gli adulti e per chi ha gli strumenti per reggere all’orrore della violenza di cui sono prima vittima le inermi generazioni nascenti.