di Anna Ferruta
L’ingresso del coronavirus nei pensieri che fanno parte della vita quotidiana ha avuto l’effetto di svegliarci da un lungo sonno, nel quale la fragilità dell’essere umano era stata confinata altrove (nei bambini, nei migranti, nelle popolazioni dell’Africa) oppure era considerata un’eccezione riguardante alcuni individui più sfortunati, colpiti da ‘loro’ malattie (tumore, infarto), spesso attribuite a un disordine dello stile di vita o dell’ambiente.
Lo smarrimento e la fragilità della condizione umana
Il cammino dell’essere umano descritto da Harari nel suo libro Sapiens. Da animali a dèi (2011, 5 milioni di copie, tradotto in 30 lingue) sembra interrompersi e pone di fronte a un senso di smarrimento. Ciascuno solleva lo sguardo dallo smartphone in cui era immerso navigando nel web, che gli aveva dato l’impressione di potersi sottrarre tranquillamente ai limiti e alle fragilità della condizione umana e si trova a riinterrogarsi su se stesso e sul posto che occupa nelle relazioni con gli altri, uomini, animali, piante, materia.
Il Coronavirus è la Sfinge
Improvvisamente, un microscopico sferico virus con tanti spuntoni interroga l’essere umano su se stesso, una specie di nuova Sfinge sbarra la strada e pone enigmi.
La reazione più immediata è quella di evitare questo passaggio che chiede di confrontarsi con la fragilità dell’essere umano, e di rifugiarsi in pensieri che mettano al riparo da questa consapevolezza, cercando di andare altrove (cambiare paese, isolarsi); oppure è quella di sentirsi sopraffatti dalla paura di non sapere da che parte girarsi in una condizione così inaspettata e imprevista (fare provviste: non si sa mai quello che può capitare…).
La reazione successiva, che pure dà un certo sollievo momentaneo, è quella di dire che coloro che hanno preso provvedimenti per tutelare la salute dei cittadini sbagliano, spesso senza nemmeno entrare nel merito dei singoli provvedimenti, ma per un comprensibile bisogno di difesa, per allontanare da sé l’angoscia di essere raggiunti da un nemico invisibile e insidioso e manifestare una esigenza di protezione non accolta.
Tre risorse di forza
Messi di fronte in modo brusco e improvviso alla dimenticata fragilità della condizione umana, abbiamo tuttavia la possibilità di riscoprire tre risorse di forza, lasciate da parte come poco interessanti.
Ciascuno può assumere in modo rinnovato e più consapevole la quota di responsabilità personale che gli compete, assumendo comportamenti ‘virtuosi’ a protezione di sé e delle persone più vicine (evitando occasioni che amplifichino la nota contagiosità di questo virus). Il piacere della responsabilità personale del prendersi cura della propria condizione e di quella di coloro che dipendono da sé è uno straordinario antidoto alla paura, perché permette di scoprire energie sconosciute e di utilizzarle per mettere in sicurezza sé e gli altri. Il singolo può fare qualcosa.
Un’altra risorsa energetica consiste nella presa di coscienza di quanto siano importanti per ciascuno quegli ‘odiosi altri’ con i quali viviamo e che incontriamo distrattamente ogni giorno, ma che riscopriamo proprio quando, per qualche motivo come quello che sta accadendo, diventano evanescenti, spariscono dalle metropolitane, dai bar, dalle piazze, dalle aule, e ci fanno sentire poveri, privi dei nostri gruppi di appartenenza.
Ma la risorsa più importante riguarda il possibile superamento delle paure suscitate dalla percezione improvvisa della nostra fragilità (spesso utilizzate per fini di parte da una troppo facile propaganda), affidandoci alle conoscenze fornite dagli uomini e donne di scienza: loro e soltanto loro hanno gli strumenti per dare indicazioni utili relativamente a cure e comportamenti efficaci.
L’antidoto alla paura
Indicazioni semplici, essenziali, precise, da parte di chi si prende cura degli effetti patogeni del virus sono un buon antidoto alla paura, perché rimettono in contatto con l’esperienza emozionale di fiducia nel caregiver che ha tenuto in vita ciascuno di noi all’origine del suo percorso esistenziale.
Inoltre l’appoggio dato ai ricercatori impegnati nell’individuazione dell’ignoto, nello studio del virus e delle risorse per farvi fronte (vaccino, prevenzione, diagnosi), ripercorre la strada tracciata nei millenni dalla capacità dell’essere umano, nonostante la sua intrinseca debolezza, di indagare cieli e terre, astri e animali ctoni (ricordiamo che Rita Levi Montalcini individuò il NGF, il fattore di crescita dei neuroni, nel veleno di serpenti; oppure Fleming e la sua scoperta della penicillina da studi sulle muffe ).
Responsabilità personale e comunitaria, ascolto fiducioso verso chi con coraggio esplora l’ignoto, invece che rifuggirne chiudendosi nel già noto, aiutano ad affrontare umane paure e a mantenere lo sguardo aperto rivolto al futuro delle nuove generazioni.
“Possiamo ribadire all’infinito che l’intelletto umano è senza forza a paragone della vita pulsionale, e in ciò avere ragione. Eppure in questa debolezza c’è qualcosa di particolare: la voce dell’intelletto è fioca, ma non ha pace finché non ottiene udienza. Più e più volte pervicacemente respinta, riesce alla fin fine a farsi ascoltare. Questo è uno dei pochi punti che consentono un certo ottimismo per l’avvenire dell’umanità.” (Freud S. (1927). L’avvenire di un’illusione. OSF 10, 482).
Leggi anche l’articolo: De Chirico a Milano.