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di Luca Bruno

Giorgio De Chirico (Volos, 1888 – Roma, 1978) ritorna a Milano, dopo la grande retrospettiva a lui dedicata nel 1970, con oltre 100 opere provenienti dai principali musei di tutto il mondo e dalle più importanti collezioni private.

Ironico, misterioso, visionario, capace di fare dialogare l’età classica, il Rinascimento, il Barocco e le avanguardie. Nel fondo del suo animo, le amate letture di Nietzsche e la lotta con l’eterno ritorno dell’identico.

E’ un viaggio ricco e complesso quello che ci propone questa mostra, che parte dalla greca terra natia, con i suoi miti, l’amore materno e i traumi che comprendono la guerra civile e le tragiche morti della sorella e del padre. Da Monaco di Baviera alle stazioni ferroviarie di Parigi. Dalle piazze d’Italia, tra le quali Ferrara, Roma e l’enigmatica Torino, fino al soggiorno milanese e alla neometafisica, che proprio qui a Milano oggi ritorna.

Tutti luoghi amati, ma forse il più amato di tutti è la Francia, dove dice di essersi sentito “più in armonia” e in alcune tele rivela teneramente il suo legame affettivo con il Midi (La mia camera nel mezzogiorno, 1927).

C’è in queste tele la profondità di uno sguardo rivolto all’inconscio, evidente nelle atmosfere oltre che nei contenuti (nei temi del viaggio, del conflitto, degli eroi, dell’ignoto). L’inconscio traspare nel dialogo con i limiti tra interno ed esterno e nel blu-verde dei suoi cieli che segnano il volgere del giorno nella sera, evocando la caducità, la perdita, il lutto.

Gli spazi aperti divengono sorprendentemente contenitori, scatole o stanze oniriche che mostrano realtà perturbanti, quel che non c’è nell’evidente, fanno comparire oggetti dove non ce li saremmo immaginati (L’incertezza del poeta, 1913). De Chirico sogna l’origine del sogno (Genealogia del sogno, 1927), dipinge con pulsione vitale e libertà di spirito (Cavalli in una stanza, 1926; Corsa di cavalli nella stanza 1928) e, come scrisse Cocteau, “prende in prestito dal sogno l’esattezza dell’inesattezza”.

E’ il tema della malinconia il filo rosso che mi sembra attraversare questa esposizione. Una malinconia profonda, sempre composta, che si fa soggetto pittorico (Malinconia ermetica, 1918). La solitudine delle sue torri in spazi silenziosi e deserti, senza tempo, che non sono luoghi reali, ma luoghi di una memoria intima, che offrono una rivelazione sospesa, lasciano riaffiorare aspetti sommersi (L’enigma di una giornata, 1914).

De Chirico associa pensieri distanti, avvicina le partenze ai ritorni. Non è la notte a generare inquietudine, ma il mattino a rivelarsi carico di angoscia (La mattinata angosciante, 1912).

Ci sono drammi inconoscibili e inquietanti (I bagni misteriosi, 1934-35) in cui le esistenze sono a metà sospese e a metà immerse, affondate in una materia densa. Ricordano, nei contesti psicoanalitici, le sedute con pazienti bloccati in atmosfere solide e senza tempo, sgomenti per l’ignoto.

L’artista guarda agli oggetti del quotidiano in modo sempre sorprendente, in una personalissima poetica che trova echi in Montale (“La mia musa”, 1973):

“Se il vento cala sa agitarsi ancora
quasi a dirmi cammina non temere
finché potrò vederti ti darò vita (…)
Ora ha ancora una manica
e con quella dirige un suo quartetto
di cannucce. E’ la sola musica che sopporto” .

Le sue muse sono inquietanti, sono statue, manichini, oggetti dell’infanzia, ritratti nel loro aspetto antico e consumato dal tempo. Ci dicono che il vero senso delle cose risiede oltre il tempo e lo spazio. Hanno volti bianchi ovoidali privi di organi sensoriali, capi reclinati in pensosa malinconia. Ricordano talora manichini di sartoria, busti decapitati e privi di braccia e gambe. Sono figure della sofferenza umana, presenze ferite, che portano i segni di tagli, cuciture e necessitano di supporti (Il trovatore, 1917; Il figliol prodigo, 1922; Manichini in riva al mare, 1926; Le muse inquietanti, 1925, 1950).

Sovente la protagonista è l’ombra che sembra alludere a qualcosa che sta per accadere, gli oggetti appaiono senza essersi dati appuntamento, tra sogno e realtà, tra verità e inganno, in un destino anancastico, ripetitivo. E’ la ripetizione del medesimo (anche nella psicoanalisi) un lavoro della mente, un mezzo per esprimersi e per cercare di elaborare i traumi.

A partire dagli anni Venti, De Chirico fu anche scenografo e costumista teatrale. Riflette costantemente sull’idea dello spettacolo, la sua arte è sempre connotata di teatralità e musica.

Anche (e ancor più) per il fratello di Giorgio, Alberto Savinio, il teatro diviene luogo espressivo del Sé, tra conoscenza e gioco (“Senti l’aria come trema! Gli oggetti più muti hanno acquistato la parola. Cantano le sedie, i muri sono sonori” – da: “Capitano Ulisse”, 1934).

L’intera produzione teatrale di Savinio risulta caratterizzata da una costante ricerca espressiva, da un profondo percorso di conoscenza e di autoconoscenza, come scrive Luca Valentino (“L’arte impura”, 1991).

Nelle quinte sceniche di piazze e porticati, si ergono incerte figure intrise di tragico mistero, ci evocano l’assenza, il dolore, l’incomunicabilità. E ci commuovono.

Ci commuove la figura del suo Orfeo trovatore stanco (1970) musico mitologico il cui canto ammansisce le bestie.

Ci riporta al canto dell’Orfeo di Monteverdi:

“Fu ben felice il giorno
Mio ben, che pria ti vidi
E più felice l’ora
Che per te sospirai
Poich’al mio sospirar tu sospirasti”.

De Chirico è stato citato da più registi teatrali, pensiamo ad esempio alle regie dell’Orfeo di Robert Wilson (anche alla Scala di Milano nel 2009) con i suoi personaggi-manichini e le prospettive metafisiche.

Nelle opere di De Chirico predomina l’inedito onirico, l’enigma, la materia celata, ignota. L’inconscio, appunto.

La sua pittura è un’indagine sul mondo interno e pulsionale, un viaggio che è, come quello psicoanalitico, continua ricerca.

Come egli stesso dice: “siamo esploratori pronti per nuove partenze”.

 

La mostra a Palazzo Reale di Milano
De Chirico
Lunedì: 14.30 – 19.30
Martedì, mercoledì, venerdì e domenica: 9.30 – 19.30
Giovedì e sabato: 9.30 – 22.30
www.palazzorealemilano.it

Orfeo trovatore stanco, 1970