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Giuseppe Pellizzari

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Giuseppe Pellizzari era una persona profondamente laica. Eppure, come molti laici, nell’avvicinarsi al pensiero della fine, non ha potuto non interrogarsi sul grande salto verso la cosa più sconosciuta per ognuno di noi: quello che ci aspetta dopo. Lo fa, come dice il titolo del suo ultimo libro, mettendo insieme una serie di pensieri che sono un “Opus incertum”, tessere irregolari di associazioni giustapposte, in realtà legate come nella modalità di costruzione usata dai Romani, dalla malta di un pensiero che corre sottotraccia e forma un insieme coerente, ma aperto.

La lettura di Guerra e pace

Uno degli ultimi capitoli del libro – Preghiera – contiene le sue riflessioni su questo argomento. Come ci ricorda il figlio Giacomo nell’introduzione, nell’ultima estate della sua vita Giuseppe Pellizzari si era dedicato alla rilettura di Guerra e pace, una rilettura molto attenta, quasi uno studio di questo libro di Tolstòj che doveva avere suscitato in lui profonde considerazioni sul tema della fine e della preghiera. L’immagine con cui il capitolo si apre è quella del principe Andrej ferito a morte nella battaglia di Austerlitz. Giacendo in mezzo ai feriti, ciò che lo assorbe completamente è l’immensità del cielo che lo sovrasta. Andrej lo guarda come se non lo avesse mai notato prima. E di fronte alla scoperta di quel cielo prende corpo quella che Giuseppe Pellizzari considera una preghiera: “Come sarebbe bello – pensa il principe – sapere a chi chiedere aiuto in questa vita, cosa aspettarsi dopo, là nell’Oltretomba. Come sarei felice e calmo se potessi dire adesso: Signore, abbi misericordia di me. Ma a chi lo direi? E’ quella forza indefinita, inconcepibile alla quale non soltanto non posso rivolgermi, ma che non posso nemmeno esprimere in parole: il grande Tutto o il grande Nulla”.

Ma che cos’è questa preghiera che Giuseppe Pellizzari mutua dalle parole di Tolstòj e che così profondamente sembra riverberare in lui?

Nello sviluppo del suo testo mi pare di intravedere diverse sfumature di questa preghiera. Essa diventa nostalgia per una resa, un abbandono fiducioso verso quel Dio la cui immaginetta la principessa Màr’ja ha cucito nell’amuleto che il principe porta al collo. Nostalgia perché quella resa è impedita da un’incredulità propria dell’età adulta che rende difficile quell’abbandono fiducioso che ci appariva possibile in certi momenti dell’infanzia. Il cielo descritto da Tolstòj è diventato altissimo, irraggiungibile, ha mostrato un’immensità inconcepibile.

Un altro aspetto che Giuseppe Pellizzari evidenzia è come “la preghiera è un chiedere, ma chiedere che cosa? Forse il neonato sa cosa chiedere con il suo pianto disperato? (…) eppure in quel pianto vi è qualcosa che la madre può capire (…). Solo un altro può dirci che cosa chiediamo”. “Una vera domanda – continua Pellizzari – non può essere chiara, esprime un’oscurità che contiene una tensione insopportabile che deve trovare uno sbocco, a tentoni, errando. Come il pianto del neonato che senza saperlo cerca un altro, la madre e quando la trova sente che è quello che andava cercando. (…) La risposta è chiarire la domanda …”. “L’oscuro oggetto del desiderio – Pellizzari richiama Bunuel – è ignoto al soggetto desiderante”. Lo si può conoscere quando si fa avanti e risponde alle nostre richieste.

Ma il cielo di Austerlitz è vuoto ed è questo vuoto infinito che il principe Andrej – ma anche Giuseppe Pellizzari – vorrebbero invocare nella loro preghiera. Entrambi si chiedono a chi la rivolgerebbero. A questo punto si fa strada il più intimo dei pronomi: “Tu”. La famigliarità confidente di un Dio che ci viene incontro ci intenerisce, ci commuove, certo, può suscitare ribellione nella nostra anima di miscredenti e sicuramente non possiamo non sentire un impulso che ci sorprende a rivolgerci a quel Tu. Ma come si fa a tollerare quel cielo vuoto del principe Andrej?

Le poesie di Giuseppe Pellizzari

Giuseppe Pellizzari era anche un poeta e anche la poesia è, a mio giudizio, in certi momenti, una forma di preghiera. Ricordo due poesie che mi aveva mandato negli ultimi anni della sua vita. La prima quando era venuto a sapere di avere la grave malattia. La seconda, nell’estate prima di morire. Citerò della prima i primi versi e la chiusa finale.

 

Ora che il ghiaccio si è fatto più sottile

Ed anche il mio peso è diventato più leggero

………………….

Sento l’abitatore segreto che non parla

dove comincia l’aurora e finisce il tramonto

racchiuso nella cattedrale dello sterno come un prigioniero

tra le oscure nervature del corpo come in una giungla

e libero nelle cose del mondo come un uccello.

Nessun nome, solo un Tu.

La seconda recita:

Si è levato il vento.

Mi sorprende, mi spaventa

la vela si gonfia, la barca si inclina,

l’acqua riprende il suo canto.

Rallenta ti prego!

Sorrido di terrore.

Come un albero fiorisco senza volerlo.

Come un aquilone

sto volando in alto

crocifisso nel cielo.

 

Anche se nell’ultima parte della prima poesia parla di un cuore che batte nella gabbia dello sterno, di fronte all’impatto con la comunicazione della brutta notizia, tuttavia mi colpisce il modo perentorio con cui quel “Tu” compare alla fine della poesia. A me fa pensare ad un’estensione più vasta di questo Tu: l’interlocutore non è solo il cuore che batte per l’emozione, ma l’oggetto ineffabile di una ricerca mai conclusa. C’è un uomo nel finale della seconda poesia che “Come un aquilone // sta volando in alto // crocifisso nel cielo”. Forse questo crocifisso nel cielo cerca ancora quel Tu che lo accolga e lo liberi dalla croce?

E la poesia è una preghiera a questo cielo immenso perché da esso emerga “l’abisso del Tu?”

di Angela Gesuè

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