Per la rubrica NOTIZIE DAL DIVANO: “Sostare a Kafar Aza, Be’eri, nel deserto del Negev”
di Anna Ferruta
Accade qualcosa di enigmatico in seduta: in questi giorni, mentre la mia mente di analista ospita la strage organizzata di bambini e persone inermi operata da Hamas il 7 ottobre in Israele (un’irruzione distruttrice che irrompe nel cuore della vita intima dei valori più essenziali che uniscono tra loro gli esseri umani), le parole e i racconti di chi si distende sul lettino o si siede sulla poltrona per una seduta psicoanalitica non risuonano con tali tragici eventi, ne restano lontani.
Mi interrogo, ricerco le inconsce motivazioni di questa differenza. Forse è insostenibile restare a contatto e identificarsi con la sofferenza estrema da de-umanizzazione, quella che è entrata in scena il 7 ottobre nel kibbutz di Kafar Aza dove sono avvenute le peggiori efferatezze, nel kibbutz di Be’eri, da dove è stata strappata la donna anziana, ora rilasciata, che saluta con la parola Shalom i suoi sequestratori, nel deserto del Negev del rave party Nova, dove è stata sterminata la meglio gioventù in festa.
Mi sembra che questa strage abbia rappresentato un salto di qualità che mina basi minime dell’umana convivenza, nei contenuti e nelle modalità di azione. Tagliare la testa nella culla a neonati, irrompere nella notte e violare l’intimità delle case e delle vite, rapire ragazzi danzanti per farne merce di scambio, costituisce un’esperienza che a livello inconscio può dare il via libera alla distruzione di ogni legame tra gli umani, in un crescendo preoccupante. Ci vuole così poco per ‘abituarsi’ e considerare questi livelli di de-umanizzazione parte della quotidianità che non indigna più nessuno. Come se si finisse per pensare: ‘E’ accaduto, fa parte della storia di un villaggio o di un altro, della nostra storia’.
E’ accaduto invece qualcosa che costituisce una violazione dei fondamenti ai quali attingono le capacità di identificazione e le basi stesse del rapporto io-altro. Mentre non ci sono difficoltà per molti a sistemarsi nella comoda poltrona costituita dal pensiero che riconosce che ragioni e torti sussistono da entrambe le parti, israeliana e palestinese, che tutte e due hanno diritto a una terra, che la popolazione civile non deve essere oggetto di bombe e razzi annientanti, l’analista non può permettersi di dormire sonni tranquilli seduto sulla sua poltrona che poggia sulla conoscenza e esperienza delle basi relazionali che stanno all’origine della vita psichica.
L’analista non può che continuare a stare a Kafar Aza, Be’eri, nel deserto del Negev, non consolato dai pensieri di chi può sentirsi lontano, super partes. Per questo ne voglio memorizzare i nomi che significano qualcosa a cui non dobbiamo abituarci con indifferenza: la violenza de-umanizzante di una strage preordinata che distrugge la base di ogni umana convivenza. L’analista che si trova a sostare col pensiero a Kafar Aza, a Be’eri, nel deserto del Negev, è esposto alla violenza della condizione tragica di sentirsi di fronte a scelte tutte intollerabili: o assistere alla de-umanizzazione e non fare niente, oppure assistere alla de-umanizzazione e fare qualcosa di ingiusto. Forse questo è il senso del silenzio dei pazienti: paralisi, impotenza.
Continuiamo a restare a contatto con la sofferenza estrema da de-umanizzazione, dovunque si trova, e non dimentichiamo: è una condizione scomoda ma che forse aiuta a tentare di comprendere meglio e cercare vie di uscita.