
Egon Schiele – Finestre – 1914
di Angela Gesuè
Il poeta persiano Rumi scrive ‘Le ferite sono feritoie attraverso le quali vedere cose che agli altri restano precluse’.
Apprezzo molto la citazione- rielaborazione che la poetessa Chandra Livia Candiani fa del verso di Rumi.
‘Le ferite sono i modi in cui la luce riesce ad entrare in noi. Quindi sono ferite, ma anche fessure, feritoie da cui la luce passa. La poesia che piace a me è quella in contatto con la ferita, ma anche con la luce che ci passa attraverso’.
Ci siamo imbattuti tutti in questa grande ferita che non ci saremo aspettati: questo coronavirus che viene da un paese lontano. Pensavamo che restasse lì o nelle vicinanze, che fosse l’ennesima notizia ad un telegiornale, magari ripetuta per qualche tempo, ma che non ci avrebbe riguardato più di tanto, come era accaduto nelle precedenti epidemie. E invece questa volta è toccato anche a noi ed ha seminato una tragedia i cui risvolti, in tutti i sensi, sarà difficile calcolare.
Le feritoie del coronavirus nell’animo umano
Ma quali fessure o feritoie può aprire nell’animo umano questa ferita? Ne prendo in considerazione solo alcune che mi hanno particolarmente colpito.
Qualcuno così mi descrive la sua giornata in questo periodo di clausura. Si alza al mattino più o meno alla stessa ora, a cui si alzava quando andava a lavorare fuori casa, fa un quarto d’ora di ginnastica, poi colazione, poi comincia a lavorare da remoto. Piccoli lavori di riparazione del proprio appartamento nel fine settimana. E’ un uomo solo, single in questo periodo, ma poi ci sono i collegamenti con amici e conoscenti attraverso la rete. Il mondo che entra in casa attraverso i telegiornali sembra non toccarlo più di tanto. Potremo parlare di un arroccamento che taglia fuori tutto quanto oppure di un inevitabile distacco quando la valanga che sta per raggiungerci è troppo alta e dirompente e ci si sente soli ed indifesi. L’ordine della giornata non è l’estremo tentativo di tenersi in ordine quando un disordine irreparabile può sommergerci?
La dissociazione come protezione
Mi ha fatto pensare ad una poesia di E. Dickinson, citata anche da P. Bromberg per descrivere situazioni di dissociazione.
E. Dickinson,599,1862
Esiste un così assoluto dolore
Che assorbe l’essere – poi –
Copre l’abisso – come in catalessi –
Così che può passarci la memoria
Sopra, attraverso, intorno –
Come chi vada innanzi in un deliquio
Con sicurezza – dove un occhio aperto
Smembrerebbe d’un colpo le sue ossa.
Si capisce perché per quest’uomo la fessura/feritoia sia procedere nell’oscurità. Forse anche per lui procedere con ‘un solo occhio aperto d’un colpo smembrerebbe le sue ossa’. Quindi chiudere gli occhi e rinforzare le ossa della sua giornata può essere sentito come una necessaria protezione?
Mi è capitato di parlare con donne che hanno avuto figli in quest’ultimo anno, bambini che stanno vivendo il primo anno di vita. Sono piccoli che cominciano ora a gattonare, qualcuno a fare i primi passi, ma la loro esplorazione del mondo non può andare al di là di brani di pavimento di appartamenti, a volte di dimensioni modeste, che occupano con i loro genitori. Queste mamme si chiedono se verrà ricordata e quali tracce lascerà su di loro quest’esperienza di limitazione. Non è stato così per loro, spesso giovani donne incoraggiate ad una socialità precoce, sentita come un valore. Che tipo di fessura/feritoia potrà aprirsi da questa ferita? Fanno fatica ad immaginarlo, temono che la ferita possa rimanere soltanto un luogo buio.
La feritoia sulla morte in solitudine
Una donna mi racconta di una fila di camion dell’esercito, visti alla Tv, che, in una delle città del Nord Italia più colpite dall’epidemia, portavano via persone morte, per cui non c’era posto nel crematorio della loro città, perché la cremazione venisse eseguita altrove. Involontariamente si era trovata a interrogarsi sul come quei corpi fossero stati collocati all’interno di quei camion. Chissà perché si era soffermata ad immaginare una donna esile e bionda in una cassa di betulla composta con la cura che una madre riserverebbe ad una figlia, se appena potesse farlo, pur in una situazione di estremo disagio. Non sappiamo nulla di come vengono organizzati questi trasporti. L’immagine che questa donna ci fornisce sembra quella di un sogno ad occhi aperti in cui la ferita di una morte avvenuta probabilmente in solitudine, l’organizzazione di un trasporto di cui non si conosce nulla, apre alla feritoia su una piccola cerimonia segreta a cui non è possibile rinunciare: la fantasia di una madre che compone con tenerezza la propria figlia nella più semplice delle bare ed il tocco delle sue mani le fa da accompagnamento in questo anonimo viaggio.
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